Due chiacchere
Vuoi reagire a questo messaggio? Crea un account in pochi click o accedi per continuare.

Dove va l’Università?

Andare in basso

Dove va l’Università? Empty Dove va l’Università?

Messaggio Da Admin Sab Mag 31, 2008 5:28 pm

Sono ormai trascorsi sette anni dall’entrata in vigore del DM 509/1999, la Riforma universitaria oggi comunemente definita “modello del 3+2” e i tempi sembrano ormai maturi per un effettivo bilancio delle conseguenze determinate dall’attuazione di questa riforma. Siamo infatti già alla presenza di una prima generazione di “laureati puri”, di studenti cioè che hanno compiuto l’intero percorso di studi nell’università riformata.
In questa sede cercherò di assumere in maniera specifica il punto di vista dello studente universitario analizzando le ricadute di questo nuovo ordinamento sulla condizione studentesca e sul piano della didattica.


Possiamo dire, in sintesi, che questa riforma si è andata sempre più a delineare come un progetto valido nelle intenzioni ma che ha fortemente disatteso le aspettative nei risultati.

Indubbiamente nasceva da un’importante esigenza di rinnovamento ampiamente condivisa a livello europeo: basti pensare alla Dichiarazione di Sorbona del 1998 in cui si auspicava una “armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore” e alla Dichiarazione congiunta di Bologna del 1999 alla quale aderirono 29 Paesi sottolineando l’esigenza di adottare un sistema di titoli comparabili e facilmente leggibili raggiungendo questi obiettivi comuni di riforma entro la prima decade del terzo millennio.

La Riforma che è stata formulata in Italia sulla scia di queste istanze entrando in vigore a partire dall’anno accademico 2001/2002, si caratterizza per tre essenziali novità:


una diversa strutturazione dei percorsi di studio suddivisa in lauree, lauree specialistiche, master di I e II livello, scuole di specializzazione, dottorati di ricerca, corsi di perfezionamento;
l’introduzione dei crediti formativi universitari (CFU), intesi come unità di misura per quantificare l’impegno richiesto allo studente per acquisire determinate competenze e come sorta di patrimonio da utilizzare anche nel passaggio da un corso di studi o da un ateneo a un altro;
l’istituzione delle classi di laurea che raggruppano tra di loro corsi affini (42 classi di laurea triennale e 104 classi di laurea specialistica).
La prima e più eclatante conseguenza di queste novità negli ordinamenti didattici riguarda l’espansione della domanda di istruzione superiore: secondo l’indagine Almalaurea del 2007 il 60% degli studenti dopo il diploma decide di iscriversi all’Università. C’è in questo contesto, rispetto al passato, un forte aumento dei giovani che decidono di proseguire gli studi universitari e che provengono da percorsi di studio tecnico-professionali (il 31,3% nel 2006) o da ambienti familiari meno favoriti. Abbiamo quindi rapidamente assistito al passaggio da un’Università essenzialmente di élite ad un’Università sempre più di massa.
A queste trasformazioni corrispondono profonde ricadute sia sul piano formativo che sul piano relazionale.


Dal punto di vista della didattica una prima conseguenza riscontrabile riguarda la progressiva e preoccupante frammentazione dei saperi e delle discipline.

Il sistema dei crediti infatti, lungi dal facilitare la vita agli studenti ed incentivare progetti di scambio tra atenei, ha sempre più trasformato la carriera accademica in una corsa contro il tempo con moduli ridotti alla durata paradossale di sole 30 ore ripartite in poche settimane. Quindi corsi sempre più concentrati, dispense non esaustive che sostituiscono tristemente i libri di testo, studenti costretti a studiare nei ritagli di tempo tra una lezione ed un’altra, esami da sostenere in rapidissima serie e poi subito nuovi corsi da frequentare senza un attimo di sosta. Una burocratizzazione dello studio e della ricerca che ha coinciso con un generale abbassamento medio della preparazione.

Per studenti e docenti questo implica una forma di disagio sempre più forte, una difficoltà a conciliare saperi sempre più specialistici con i nuovi e multiformi problemi della globalizzazione. Scrive infatti a questo proposito Edgar Morin: “C’è un’inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra i nostri saperi disgiunti, frazionati, suddivisi in discipline, da una parte, e realtà o problemi sempre più polidisciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari dall’altra”.

Il sapere disciplinare non può esaurirsi nella semplice acquisizione passiva di conoscenze ma dovrebbe invece implicare una continua attività creativa da parte dei singoli e dei gruppi, un processo dialettico attraverso cui rielaborare e riorganizzare in maniera critica e originale le competenze. L’Università dovrebbe essere il luogo per eccellenza in cui si attivano questi processi, in cui acquisire un metodo di studio e di ricerca che non sia asettico ma continuamente in divenire.

Ma come apprendere una tale metodologia in un contesto accademico sempre più rapido e frenetico?

Dove trovare spazi per il discernimento, la ricerca bibliografica, il confronto tra punti di vista diversi, la sedimentazione e la rielaborazione delle conoscenze all’interno di moduli didattici sempre più brevi, incompleti e ridotti ai minimi termini?

Emblematica la definizione di alcuni docenti che hanno parlato di Università del “mordi e fuggi”, trasformata in una sorta di “fast-food del sapere”.


In generale sembra di assistere ad una progressiva spersonalizzazione del sistema d’istruzione in favore di un percorso esclusivamente professionalizzante, orientato soltanto ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro.

Ma a quale prezzo?

Da un lato è possibile riscontrare un incoraggiante contrarsi dell’età in cui ci si laurea: da una media di 28 anni ad una media di 27,1 (indagine Almalaurea 2007).

Buoni risultati sono stati prodotti anche dalle esperienze di tirocinio e stages che vengono associate ad un tasso di occupazione pari a 10 punti percentuali di differenza rispetto a chi non ha svolto esperienze analoghe.

Allarmanti però i dati correlati al mercato del lavoro per i laureati triennali che sembrano sperimentare, rispetto ai laureati nel vecchio ordinamento, un peggioramento delle prospettive occupazionali e al tempo stesso della retribuzione, stabilità e qualità del lavoro. Appare quindi completamente fallita l’idea di un’autonomia della laurea triennale se si considera che 71 laureati su 100 decidono di iscriversi successivamente alla laurea specialistica (la percentuale raggiunge addirittura l’89-90% per i laureati triennali in Psicologia e Giurisprudenza).

Si è da più parti parlato di una “truffa” del triennio: secondo Luciano Canfora “questo corso di tre anni mira a fornire un surrogato paraliceale” così come per Mario Pirani che lo definisce un “triennio che da’ una laurea dequalificatissima che poteva, almeno, essere chiamata come all’estero diploma universitario”.

Per non parlare poi del gravoso problema della precarietà di chi intende proseguire una formazione post-lauream con un dottorato di ricerca: negli ultimi 4 anni il blocco delle assunzioni e il taglio dei finanziamenti ha fatto salire la quota del precariato di chi svolge un dottorato oltre il 50% e addirittura oltre l’80% presso alcuni enti di ricerca.


Un secondo aspetto sul quale vorrei soffermarmi nell’analizzare le conseguenze dell’attuazione di questa Riforma riguarda il contesto educativo e la crisi crescente della relazione docente/discente in ambito accademico.

In facoltà sempre più affollate, all’interno di corsi frequentati contemporaneamente da centinaia di studenti come poter pensare che un docente possa anche solo ricordarsi i volti e i nomi dei suoi studenti ed instaurare con loro un dialogo e un confronto significativo?

Impossibile allora attuare metodologie didattiche diverse dalla lezione frontale, sperimentare il metodo del laboratorio di gruppo, proporre attività di taglio maggiormente esperienziale e favorire un dialogo ed un confronto che permettano agli allievi di esprimere liberamente il proprio punto di vista. Gli studenti sono così costretti ad accontentarsi di essere semplici spettatori passivi piuttosto che partecipare attivamente e propositivamente alle lezioni.

La nostra Federazione ha più volte ribadito la preoccupazione per un’Università che sembra abdicare al suo ruolo educativo accontentandosi esclusivamente di esercitare il compito di istruire, una comunità accademica costituita da docenti che si concentrano sempre più solo su uno sterile nozionismo rinunciando al proprio ruolo naturale di guide e di maestri per le nuove generazioni. Eppure sappiamo come gli anni dello studio universitario siano cruciali e determinanti per la formazione dei giovani e come l’incontro con adulti significativi sia determinante sul piano motivazionale.

Non è sufficiente che il docente sappia insegnare la sua disciplina se non accompagna questo percorso ad una sensibilità emotiva, ad un’attenzione alla cura della singolarità dei propri studenti che non sono semplicemente numeri di matricola da incontrare più o meno distrattamente in sede d’esame ma soggetti da valorizzare, con i quali instaurare una relazione positiva che li incoraggi ad esprimere al massimo le proprie potenzialità.


A questi elementi vorrei aggiungere il fenomeno della proliferazione delle sedi universitarie che negli ultimi anni ha assunto dimensioni davvero preoccupanti. Ci si accorge allora di come la scelta universitaria avvenga sempre di più secondo i criteri della facilità e della semplificazione, nella volontà di rimandare il più possibile l’uscita dall’ambiente familiare rinunciando a volte alle proprie inclinazioni e ai propri interessi in favore di una maggiore sicurezza e protezione. Anche questo aspetto non favorisce il processo di maturazione affettiva e culturale dei giovani studenti che appaiono sempre più disorientati, confusi e rinunciatari nel loro percorso formativo.


In questo contesto non stupisce allora la crisi dell’associazionismo studentesco, la disaffezione nei confronti della politica universitaria e la scarsa partecipazione degli studenti ad attività culturali extra-curricolari.

La logica dei crediti formativi sembra infatti avere ormai ridotto il percorso universitario ad un “conteggio ragionieristico delle pagine da studiare” (G. Bertone), in cui l’unica preoccupazione appare quella di sostenere più esami possibili in breve tempo accumulando il maggior numero di crediti per potersi laureare e poter così accedere al mercato del lavoro in fretta, rinunciando a possibilità alternative di crescita e di formazione ritenute superflue invece che complementari.


Da queste brevi considerazioni, è possibile ipotizzare alcune innovazioni e riforme che appaiono sempre più urgenti e necessarie affinché l’Università ritorni ad esercitare il suo primario compito educativo.

Prima di tutto è doveroso un effettivo ripensamento della suddivisione in lauree triennali e specialistiche (percorso già avviato in alcune facoltà, come ad esempio quella di Giurisprudenza).

Occorre poi riscoprire un sistema didattico che metta realmente al centro lo studente e la sua formazione umana e culturale, non riducendo più l’Università solo ad uno sterile nozionificio ed esamificio ma educando invece realmente gli studenti al metodo della ricerca rigorosa e scientifica, al confronto produttivo tra punti di vista diversi, all’approfondimento serio e meticoloso. Per fare questo è necessario tornare ad applicare il criterio fondamentale della meritocrazia: affiancare cioè ad un rilancio della qualità degli insegnamenti proposti un sistema di valutazione serio e rigoroso che incentivi realmente gli studenti all’impegno e allo studio responsabile.

Infine è di primaria importanza una revisione del sistema dei concorsi, ancora tristemente soggetti alle logiche del clientelismo e della corruzione ed un reale e concreto incentivo alla ricerca, riconoscendo il ruolo fondamentale dei ricercatori per la crescita del Paese e garantendo loro le condizioni elementari di stabilità per svolgere serenamente e proficuamente la loro attività, arginando così quella “fuga dei cervelli” che negli ultimi anni ha profondamente danneggiato e impoverito il tessuto culturale italiano.

Solo a queste condizioni l’Università potrà gradualmente tornare ad essere una vera “cittadella del sapere”, una comunità di docenti e discenti orientata non solo alla creazione di una cultura professionale, pur importante, ma capace di investire seriamente sulla didattica, sulla ricerca e sulla formazione complessiva delle nuove generazioni.



Silvia Sanchini
Presidente nazionale FUCI

Parma, 16 Aprile 2008

Admin
Admin

Messaggi : 225
Data di iscrizione : 09.05.08

https://pgcastellina.forumattivo.com

Torna in alto Andare in basso

Torna in alto


 
Permessi in questa sezione del forum:
Non puoi rispondere agli argomenti in questo forum.