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Quando il prete insegna a vivere

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Messaggio Da Admin Mer Giu 11, 2008 5:32 pm

Se il « prof » è anche un « don » ti accompagna nella vita
Preg. mo professor Andreoli, nei miei 30+ 30 anni e qualche scampolo, ho conosciuto e stimato il sacerdote don Carmine Ascione, monsignore, parroco di Sant’Antonio a Brancaccio di Torre del Greco; erano gli anni ’ 60. Negli anni ’ 70 insegnava, come me, storia e filosofia nel liceo di Roccadaspide ( Sa), l’apprezzato prof. don Vincenzo Taiani, un ' grande' collega sotto l’aspetto umano e professionale. Ad Agropoli, vi è stato il provvido incontro, negli anni 80­’ 90, con il frate padre Giacomo Selvi, oggi credo beato, al quale ha dedicato studi e libri l’ottimo collega Germano Bonora. Com’è evidente, nella mia esistenza ho incrociato preti con la « P » , petali preziosi, che padre Dante direbbe « sono in forma di candida rosa » . Ma, nella mia quarantennale carriera scolastica, ho avuto rapporti più o meno amichevoli con molti colleghi preti.
Insomma, secondo me, come ogni rosa, anche la più profumata, la più bella ha le sue spine, oggi velenose. I sacerdoti, secondo me, o sono come quei professori che insegnano a vivere, a vivere meglio, oppure sono come i professorelli frustrati, immersi nel monotono tran tran quotidiano.
prof. Luciano Casatellano
SNoi seminaristi, tra i Rom del Casilino figli dello stesso Padre iamo un gruppo di ragazzi che sta vivendo l’esperienza dell’anno propedeutico presso il Seminario Romano Maggiore di Roma. Siamo accompagnati e guidati, in questo anno di ' discernimento', da alcuni bravi sacerdoti e sostenuti da tutta la comunità del Seminario. Riflettiamo soprattutto sulla possibilità che ognuno di noi ( ragazzi dai 19 fino ai 38 anni) possa essere chiamato alla vita sacerdotale. La nostra riflessione viene aiutata attraverso l’offerta di molti strumenti, tra questi il servizio caritativo, inteso come: « Ehi giovane, nel tuo discernere, nel tuo riflettere sulla chiamata di Dio, non dimenticarti mai degli ultimi, dei disagiati, dei dimenticati, così come non dimenticarti mai di nessun uomo o donna verso i quali sei chiamato prima di tutto come cristiano, nella fede, da possibile sacerdote poi, a essere sostegno e aiuto, guida e portatore di speranza » . Tra i tanti posti in cui siamo mandati ad offrire servizio ( mensa della Caritas diocesana, mensa della comunità di Sant’Egidio, suore Missionarie della Carità, casa di riposo delle Piccole sorelle dei poveri) ecco allora che arriva il « Casilino 900 » , il campo nomadi sulla via Casilina, all’incrocio con Via P.
Togliatti, che è stato al centro dell’attenzione nei mesi scorsi per essere stato a rischio di sgombero. Chiunque passa in prossimità del campo non può non notare la scritta che padroneggia sul piazzale antistante: « Figli di uno stesso Padre » . Il nostro compito, per alcuni mesi, è stato quello di animare alcuni pomeriggi con i bambini, per far trascorrere loro qualche momento nel gioco e nella fraternità sana e costruttiva. Possiamo testimoniare a gran voce che siamo stati animati noi da loro, dalla loro voglia di vivere, dal loro essere bambini nonostante tutto; nonostante la loro quotidianità sia trascorsa nel fango e in condizioni a dir poco spaventose, nonostante la spensieratezza e la tranquillità familiare siano optional lontani dalla loro portata. Non vogliamo entrare in argomenti come illegalità, interessi politici ed economici che ( anche se è retorico) sembrano troppo spesso muovere la nostra società e di conseguenza vanno a intaccare e corrompere temi come l’integrazione, l’accoglienza, l’assistenza, non lasciando spiragli alla speranza. Ci rendiamo conto e probabilmente voi con noi, che la durezza del cuore può farci dimenticare che siamo « figli di uno stesso Padre » . La maggior parte di noi viene da esperienze nella propria parrocchia di appartenenza, tante volte a contatto con i bambini.
Molti di noi prima di mettere piede al « Casilino 900 » erano certi di conoscere bene il mondo nascosto negli occhi dei bambini, oggi vi diciamo che occhi e sguardi come quelli dei piccoli rom non li avevamo mai incrociati: lo stupore per le piccole cose, la gioia dell’amicizia, la ricerca della felicità; così come l’amarezza, il sentirsi incompresi, il dolore per situazioni rispetto alle quali sembrano dirti: « Non capisci perché… sei ricco! » . Sono sguardi attenti, i loro, vigili sia sul mondo che li circonda, quello delle baracche fatiscenti, sia sul mondo « oltre il fango » . Sono sguardi che percepiscono l’intolleranza e il non essere accettati come fratelli che hanno in comune con tutti lo stesso Padre. Ora gli occhi vispi e profondi di questi piccoli stanno assistendo all’inizio della fine del loro campo, che ospita i rom dalla fine degli anni ’ 60: vediamo la paura scritta sui volti sia dei grandi che dei bambini. Molti sono gli interventi nel campo: la scolarizzazione di una parte degli oltre 250 bambini presenti, la sensibilizzazione alla cura e alla prevenzione sanitaria, assistenza umana volta a seguire le famiglie per la sopravvivenza e l’integrazione nella metropoli romana attraverso anche dei mercatini in cui i rom vendono lavori artigianali e altri oggetti; c’è anche un accompagnamento spirituale portato avanti da don Paolo Lojudice, nostro direttore spirituale, che è vicino alle famiglie e agli abitanti del campo; alcuni hanno chiesto di ricevere il sacramento del Battesimo e di avvicinarsi in qualche modo alla fede cattolica. C’è la figura di Najo, tenace rom che da tempo porta avanti la battaglia per l’integrazione del campo attraverso un dialogo serio e concreto con le istituzioni e con le altre associazioni. Ci siamo anche noi, ragazzi in cammino che ci siamo avvicinati al « Casilino 900 » cercando di fare nostro l’invito: « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » ( Mt 25,40). Abbiamo cercato di lavorare e continueremo a farlo non togliendo lo sguardo dalla frase sul piazzale, che ci ricorda che siamo figli di uno stesso Padre. La minaccia dello sgombero del campo ci fa riflettere sul futuro di questi nostri fratelli rom. Di certo non compete principalmente a noi lanciare appelli o fare proclami, ma noi scriviamo mossi dalla responsabilità della testimonianza su un mondo che, per quanto ancora poco conosciamo, crediamo meriti speranza e vita. Noi speriamo.
Sì noi speriamo affinché a queste donne, a questi uomini, a questi stupendi bambini sia assicurato un futuro dignitoso e rispettoso della loro storia, cultura e tradizione, un futuro verso il quale lo sguardo dei piccoli e delle nuove generazioni possa guardare con fiducia e speranza, aiutati a capire e a rispettare anche e soprattutto i loro doveri per una convivenza legale e civile nella società, affinchè ci sia una equa integrazione, che richiede impegno da ogni parte coinvolta. Noi speriamo perché crediamo fermamente che siamo… « Figli di uno stesso Padre » .
Un gruppo di giovani del propedeutico del Seminario Romano Maggiore
GChe gratificazione per noi religiosi sentirci amati da Dio entilissimo professor Andreoli, sono una sua fedele lettrice e le scrivo per ringraziarla su quanto ha scritto nelle sue riflessioni « I preti e noi » e per invitarla a continuare.
Può fare tanto bene a tutti. In particolare mi è piaciuto il suo definire il prete « l’uomo della speranza » ; dovrebbe essere così. Nella puntata numero 14 ha dato un’altra bellissima definizione del prete: « Un uomo vero che vuole il bene vero, un uomo che si perde per la felicità degli altri » . Certo, questo è l’ideale, ma penso che ogni sacerdote, nonostante i suoi limiti, viva proteso verso questa meta. Nella puntata, dove parla di frustrazioni e gratificazioni, mi piace molto la sua affermazione secondo la quale la gratificazione per eccellenza, per un prete, è quella di sentirsi scelto e amato da Dio. La condivido appieno e ne sperimento quotidianamente la gioia, essendo anch’io stata oggetto della scelta divina. Queste cose dette da chi sostiene di essere un « non credente » , ma che non lo è affatto, penso, facciano maggiore breccia nel cuore dei lettori.
Suor Giovanna Saturno, vocazionista Canicattì ( Ag)
«La maggior parte di noi viene da esperienze in parrocchia a contatto con i bambini. Molti prima di mettere piede al campo nomadi 'Casilino 900' erano certi di conoscere bene il mondo nascosto nei loro occhi, oggi vi diciamo che sguardi come quelli dei piccoli rom non li avevamo mai incrociati»
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