educazione cristiana
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educazione cristiana
L’emergenza educativa è emergenza della Chiesa
Intervista al Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 3 giugno 2008 (ZENIT.org).-
L’emergenza educativa è un’emergenza per l’opera di evangelizzazione della Chiesa, afferma in questa intervista rilasciata a ZENIT l’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, nominato di recente Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Monsignor Bruguès è nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre (diocesi di Tarbes e Lourdes). Dopo essersi laureato in Economia e Diritto è entrato nell’Ordine dei Predicatori nel 1968.
Ha ricevuto la laurea “honoris causa” dall’Aquinas Institute of Theology dell’Università di Saint-Louis (Stati Uniti), nel 2002. Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo di Angers il 20 marzo del 2000, mentre Benedetto XVI lo ha chiamato a collaborare con lui alla Santa Sede, il 10 novembre scorso.
Come descriverebbe la gioventù di oggi?
Monsignor Bruguès: Abbiamo la fortuna di poter contare su una gioventù che io qualificherei straordinaria. È generosa. È una minoranza, è vero, se si guardano alle cifre complessive, ma ha volontà. Sa di non sapere, dal punto di vista della cultura cristiana; si rende conto che il contenuto della fede gli è familiare fino a un certo punto, ma vuole imparare!
Per questo motivo le catechesi riscuotono un grande successo presso i giovani, siano essi adolescenti o più grandi, studenti o giovani professionisti. E a me questi giovani aiutano a compiere un atto di fede nel futuro della Chiesa, anche qui, in una società in via di rapida secolarizzazione.
Ogni anno, nel mese di luglio, vado a Lourdes con seicento adolescenti. Quando tenevo le catechesi i giovani venivano a centinaia e talvolta superavano il migliaio. Abbiamo fatto una festa della catechesi e sono venuti in settemila. Evidentemente i numeri non dicono tutto. Il titolo dell’incontro era: “Questo futuro da amare” e l’obiettivo era riconciliare i nostri cristiani, i nostri battezzati, con il loro futuro.
In Francia si è appena svolto un grande dibattito sulle catechesi e le scuole cattoliche. Qual è la sua posizione e le sue riflessioni su questo tema?
Monsignor Bruguès: La situazione della scuola cattolica si differenzia molto tra un Paese e l’altro. Mi limito alla Francia ricordando un ulteriore dato: nella mia diocesi l’insegnamento cattolico riguarda il 41% dei giovani. Quasi uno su due. Quando si dice che la Chiesa non ha contatto con i giovani, evidentemente non si conosce la realtà, perché nel nostro ambiente ha la possibilità di rivolgersi quasi a un giovane su due.
Cosa facciamo di fronte a questa opportunità? Questa è la domanda con cui ci confrontiamo. Oggi, sulla scuola cattolica, è in corso un dibattito che ritengo interessante, utile, anche se talvolta viene fatto a colpi di cannone; un dibattito che ci obbliga a ricordare a noi stessi, Vescovi, sacerdoti, direttori dei centri, professori che cos’è una scuola cattolica.
Anzitutto possiamo dire che il termine “cattolico” ha in sé due significati. Cattolico vuol dire universale e pertanto i nostri centri devono avere l’impegno di aprirsi a chi bussa alla porta, soprattutto a chi si trova in condizioni sociali meno favorevoli. Cattolico, per un secondo verso, significa anche confessione di una fede. Una scuola cattolica quindi è una scuola aperta in cui la cultura che viene insegnata è orientata alla confessione di una specifica fede.
Come si possono articolare queste due dimensioni della scuola cattolica?
Monsignor Bruguès: Tra queste due definizioni del termine cattolico - universalità e specificità - esiste, è sempre esistita, una tensione che io trovo salutare. Il pericolo vero sarebbe di voler sopprimere uno dei due significati, con lo scopo di eliminare questa tensione.
Se si vuole eliminare la dimensione universale, si fa della scuola cattolica una scuola di una comunità particolare e, in certi casi, una scuola ghetto. Se si elimina la dimensione della confessione della fede, si fa della scuola cattolica una scuola come le altre, senza un carattere proprio. Se si aprono tutte le finestre di una casa, si ottiene una corrente d’aria ma non si riesce a lavorare. Per questo sono faziosamente favorevole a questa tensione.
Nella pratica che cosa implica questo?
Monsignor Bruguès: Le faccio un esempio concreto. Quando sono arrivato alla diocesi mi sono reso conto che, quando i genitori venivano ad iscrivere i figli in un istituto cattolico, il Direttore diceva loro che in quella scuola si faceva una proposta di fede, una proposta catechetica. I genitori erano liberi di accettare o di rifiutare. Cosa succedeva se rifiutavano? Niente. Non se ne faceva nulla. La scelta era: catechesi o nulla.
Io credo che questo non sia un buon modo di presentare la questione e pertanto abbiamo intrapreso un’esperienza di cui sono molto contento e anche molto fiero. Abbiamo iniziato a costruire un ciclo di cultura cristiana. Non dico religiosa, ma cristiana.
In cosa consiste questa proposta di cultura cristiana?
Monsignor Bruguès: Con gli strumenti più moderni abbiamo creato una pedagogia, una metodologia, per l’insegnamento della cultura cristiana che, molto ben realizzata a livello tecnico, piace moltissimo ai bambini. Nella metà dei centri scolastici della nostra diocesi la cultura cristiana è quindi obbligatoria per tutti. Se i genitori vogliono iscrivere i loro figli alla scuola, sanno da subito che ci sarà un insegnamento vivo della cultura cristiana. Ma non è una catechesi. Per chi invece lo desidera, esiste anche una proposta catechetica. La nostra proposta quindi non è più “o-o”, ma è “e-e”!
Ciò che constatiamo è che questo insegnamento della cultura cristiana è vissuto da molti come un primo annuncio della fede, al punto che il numero dei bambini che si iscrivono alla catechesi è aumentato di un terzo. Vorrei che questa esperienza fosse maggiormente conosciuta e riconosciuta, e - perché no - diffusa, tanto più che le diocesi di Angers e di Nantes, che si sono associate, hanno creato con il libro di testo “Anne e Leo giornalisti” uno strumento straordinario.
Questo è un esempio che dimostra che è possibile vivere in modo molto proficuo questa tensione fra l’universalità e la specificità della scuola cattolica.
Lei ha parlato di questi ambiti in cui si è riusciti ad incidere, come quello della scuola cattolica. Nel suo nuovo incarico lei ha anche i seminari. Quale può essere in Occidente la politica per i seminari, di fronte al calo delle vocazioni?
Monsignor Bruguès: Non so se sia giusto elaborare una politica al vertice e dire: ecco qua ciò che si deve fare a tutti i livelli. Io farei piuttosto il percorso inverso: cosa avviene alla base?
Nella mia esperienza di religioso, di professore e di Vescovo posso dire che Dio chiama oggi nella stessa misura in cui chiamava prima. Per esempio, in questo momento, ho una quindicina di ragazzi che sono venuti ad incontrarsi con me - non so se prima si faceva così - e hanno detto al Vescovo di avere delle domande. Il più giovane ha 14 anni e il più grande sui 22 o 23. Pertanto, Dio chiama.
D’altra parte è vero, e io ci credo, che esiste una stretta relazione tra il numero delle vocazioni e il numero dei praticanti. Dio chiama questo popolo, i servitori, perché ne ha bisogno. Per me quindi la questione non è la scarsità di vocazioni, ma lo scarso sostegno, lo scarso accompagnamento. Ed è da qui che arrivano le difficoltà: non è facile trovare una comunità cristiana che sostenga veramente queste vocazioni e che accompagni passo dopo passo il giovane che si senta chiamato, anche se, evidentemente, all’inizio la certezza non c’è.
Come può la Chiesa aiutare i giovani a rispondere alla chiamata di Dio?
Monsignor Bruguès: Un numero significativo di vocazioni si perde sul campo. Una comunità ha sempre i sacerdoti che si merita. Un esempio recente: un sacerdote viene da me per dirmi che ha raggiunto l’età della pensione e che ha deciso di ritirarsi. Nel colloquio gli chiedo: “non c’è stato mai un giovane che è venuto a trovarla?”. “Sì, sì, c’è stato uno di recente, di 22 anni, con studi di musicologia...”. E questo giovane, la cui madre faceva parte dell’EAP (Equipe di animazione parrocchiale), aveva colto l’occasione, una domenica in cui il parroco era stato invitato a casa, per dire alla famiglia che stava pensando di farsi sacerdote.
La madre allora va su tutte le furie e gli dice: “È una strada senza uscita, spero che tu non lo faccia”. E passa il resto del pranzo a dissuadere il figlio. Responsabile dell’EAP!
E il parroco era lì! Allora gli ho chiesto: “E lei cosa le ha detto?”. “Niente”. È l’esempio di una comunità che non si fa carico della chiamata che Dio rivolge a uno dei suoi giovani.
Come si può favorire questa presa di coscienza?
Monsignor Bruguès: I metodi sono diversi. Conosco parrocchie in cui si prega per le vocazioni. E' un buon mezzo ma bisognerebbe sensibilizzare, responsabilizzare, le comunità parrocchiali e le famiglie, perché veramente si accolga come un dono, una grazia e - perché no - come un onore, la chiamata che può essere rivolta a uno dei suoi giovani. E poi bisogna utilizzare tutti i mezzi per accompagnare il giovane.
In parte per rispondere a tale questione ho creato quest’anno, nella mia diocesi, delle case per studenti. In queste tre case, per ora, risiedono ventisette giovani, che sono responsabili di esse. Hanno tutti i giorni un tempo di preghiera e ricevono un insegnamento esplicitamente cristiano. Questo vuol dire che, parallelamente alla formazione professionale che ricevono nelle università, acquisiscono una formazione cristiana. Alcuni di loro si fanno delle domande di tipo vocazionale. Lì trovano l’ambiente e i direttori spirituali di cui hanno bisogno. Di questi ventisette, quattro mi hanno detto che stanno pensando di farsi sacerdoti o religiosi. Queste prime tre case accolgono solo ragazzi, ma ho lanciato - anche se spetterà al mio successore - la creazione di case per ragazze.
Intervista al Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 3 giugno 2008 (ZENIT.org).-
L’emergenza educativa è un’emergenza per l’opera di evangelizzazione della Chiesa, afferma in questa intervista rilasciata a ZENIT l’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, nominato di recente Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Monsignor Bruguès è nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre (diocesi di Tarbes e Lourdes). Dopo essersi laureato in Economia e Diritto è entrato nell’Ordine dei Predicatori nel 1968.
Ha ricevuto la laurea “honoris causa” dall’Aquinas Institute of Theology dell’Università di Saint-Louis (Stati Uniti), nel 2002. Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo di Angers il 20 marzo del 2000, mentre Benedetto XVI lo ha chiamato a collaborare con lui alla Santa Sede, il 10 novembre scorso.
Come descriverebbe la gioventù di oggi?
Monsignor Bruguès: Abbiamo la fortuna di poter contare su una gioventù che io qualificherei straordinaria. È generosa. È una minoranza, è vero, se si guardano alle cifre complessive, ma ha volontà. Sa di non sapere, dal punto di vista della cultura cristiana; si rende conto che il contenuto della fede gli è familiare fino a un certo punto, ma vuole imparare!
Per questo motivo le catechesi riscuotono un grande successo presso i giovani, siano essi adolescenti o più grandi, studenti o giovani professionisti. E a me questi giovani aiutano a compiere un atto di fede nel futuro della Chiesa, anche qui, in una società in via di rapida secolarizzazione.
Ogni anno, nel mese di luglio, vado a Lourdes con seicento adolescenti. Quando tenevo le catechesi i giovani venivano a centinaia e talvolta superavano il migliaio. Abbiamo fatto una festa della catechesi e sono venuti in settemila. Evidentemente i numeri non dicono tutto. Il titolo dell’incontro era: “Questo futuro da amare” e l’obiettivo era riconciliare i nostri cristiani, i nostri battezzati, con il loro futuro.
In Francia si è appena svolto un grande dibattito sulle catechesi e le scuole cattoliche. Qual è la sua posizione e le sue riflessioni su questo tema?
Monsignor Bruguès: La situazione della scuola cattolica si differenzia molto tra un Paese e l’altro. Mi limito alla Francia ricordando un ulteriore dato: nella mia diocesi l’insegnamento cattolico riguarda il 41% dei giovani. Quasi uno su due. Quando si dice che la Chiesa non ha contatto con i giovani, evidentemente non si conosce la realtà, perché nel nostro ambiente ha la possibilità di rivolgersi quasi a un giovane su due.
Cosa facciamo di fronte a questa opportunità? Questa è la domanda con cui ci confrontiamo. Oggi, sulla scuola cattolica, è in corso un dibattito che ritengo interessante, utile, anche se talvolta viene fatto a colpi di cannone; un dibattito che ci obbliga a ricordare a noi stessi, Vescovi, sacerdoti, direttori dei centri, professori che cos’è una scuola cattolica.
Anzitutto possiamo dire che il termine “cattolico” ha in sé due significati. Cattolico vuol dire universale e pertanto i nostri centri devono avere l’impegno di aprirsi a chi bussa alla porta, soprattutto a chi si trova in condizioni sociali meno favorevoli. Cattolico, per un secondo verso, significa anche confessione di una fede. Una scuola cattolica quindi è una scuola aperta in cui la cultura che viene insegnata è orientata alla confessione di una specifica fede.
Come si possono articolare queste due dimensioni della scuola cattolica?
Monsignor Bruguès: Tra queste due definizioni del termine cattolico - universalità e specificità - esiste, è sempre esistita, una tensione che io trovo salutare. Il pericolo vero sarebbe di voler sopprimere uno dei due significati, con lo scopo di eliminare questa tensione.
Se si vuole eliminare la dimensione universale, si fa della scuola cattolica una scuola di una comunità particolare e, in certi casi, una scuola ghetto. Se si elimina la dimensione della confessione della fede, si fa della scuola cattolica una scuola come le altre, senza un carattere proprio. Se si aprono tutte le finestre di una casa, si ottiene una corrente d’aria ma non si riesce a lavorare. Per questo sono faziosamente favorevole a questa tensione.
Nella pratica che cosa implica questo?
Monsignor Bruguès: Le faccio un esempio concreto. Quando sono arrivato alla diocesi mi sono reso conto che, quando i genitori venivano ad iscrivere i figli in un istituto cattolico, il Direttore diceva loro che in quella scuola si faceva una proposta di fede, una proposta catechetica. I genitori erano liberi di accettare o di rifiutare. Cosa succedeva se rifiutavano? Niente. Non se ne faceva nulla. La scelta era: catechesi o nulla.
Io credo che questo non sia un buon modo di presentare la questione e pertanto abbiamo intrapreso un’esperienza di cui sono molto contento e anche molto fiero. Abbiamo iniziato a costruire un ciclo di cultura cristiana. Non dico religiosa, ma cristiana.
In cosa consiste questa proposta di cultura cristiana?
Monsignor Bruguès: Con gli strumenti più moderni abbiamo creato una pedagogia, una metodologia, per l’insegnamento della cultura cristiana che, molto ben realizzata a livello tecnico, piace moltissimo ai bambini. Nella metà dei centri scolastici della nostra diocesi la cultura cristiana è quindi obbligatoria per tutti. Se i genitori vogliono iscrivere i loro figli alla scuola, sanno da subito che ci sarà un insegnamento vivo della cultura cristiana. Ma non è una catechesi. Per chi invece lo desidera, esiste anche una proposta catechetica. La nostra proposta quindi non è più “o-o”, ma è “e-e”!
Ciò che constatiamo è che questo insegnamento della cultura cristiana è vissuto da molti come un primo annuncio della fede, al punto che il numero dei bambini che si iscrivono alla catechesi è aumentato di un terzo. Vorrei che questa esperienza fosse maggiormente conosciuta e riconosciuta, e - perché no - diffusa, tanto più che le diocesi di Angers e di Nantes, che si sono associate, hanno creato con il libro di testo “Anne e Leo giornalisti” uno strumento straordinario.
Questo è un esempio che dimostra che è possibile vivere in modo molto proficuo questa tensione fra l’universalità e la specificità della scuola cattolica.
Lei ha parlato di questi ambiti in cui si è riusciti ad incidere, come quello della scuola cattolica. Nel suo nuovo incarico lei ha anche i seminari. Quale può essere in Occidente la politica per i seminari, di fronte al calo delle vocazioni?
Monsignor Bruguès: Non so se sia giusto elaborare una politica al vertice e dire: ecco qua ciò che si deve fare a tutti i livelli. Io farei piuttosto il percorso inverso: cosa avviene alla base?
Nella mia esperienza di religioso, di professore e di Vescovo posso dire che Dio chiama oggi nella stessa misura in cui chiamava prima. Per esempio, in questo momento, ho una quindicina di ragazzi che sono venuti ad incontrarsi con me - non so se prima si faceva così - e hanno detto al Vescovo di avere delle domande. Il più giovane ha 14 anni e il più grande sui 22 o 23. Pertanto, Dio chiama.
D’altra parte è vero, e io ci credo, che esiste una stretta relazione tra il numero delle vocazioni e il numero dei praticanti. Dio chiama questo popolo, i servitori, perché ne ha bisogno. Per me quindi la questione non è la scarsità di vocazioni, ma lo scarso sostegno, lo scarso accompagnamento. Ed è da qui che arrivano le difficoltà: non è facile trovare una comunità cristiana che sostenga veramente queste vocazioni e che accompagni passo dopo passo il giovane che si senta chiamato, anche se, evidentemente, all’inizio la certezza non c’è.
Come può la Chiesa aiutare i giovani a rispondere alla chiamata di Dio?
Monsignor Bruguès: Un numero significativo di vocazioni si perde sul campo. Una comunità ha sempre i sacerdoti che si merita. Un esempio recente: un sacerdote viene da me per dirmi che ha raggiunto l’età della pensione e che ha deciso di ritirarsi. Nel colloquio gli chiedo: “non c’è stato mai un giovane che è venuto a trovarla?”. “Sì, sì, c’è stato uno di recente, di 22 anni, con studi di musicologia...”. E questo giovane, la cui madre faceva parte dell’EAP (Equipe di animazione parrocchiale), aveva colto l’occasione, una domenica in cui il parroco era stato invitato a casa, per dire alla famiglia che stava pensando di farsi sacerdote.
La madre allora va su tutte le furie e gli dice: “È una strada senza uscita, spero che tu non lo faccia”. E passa il resto del pranzo a dissuadere il figlio. Responsabile dell’EAP!
E il parroco era lì! Allora gli ho chiesto: “E lei cosa le ha detto?”. “Niente”. È l’esempio di una comunità che non si fa carico della chiamata che Dio rivolge a uno dei suoi giovani.
Come si può favorire questa presa di coscienza?
Monsignor Bruguès: I metodi sono diversi. Conosco parrocchie in cui si prega per le vocazioni. E' un buon mezzo ma bisognerebbe sensibilizzare, responsabilizzare, le comunità parrocchiali e le famiglie, perché veramente si accolga come un dono, una grazia e - perché no - come un onore, la chiamata che può essere rivolta a uno dei suoi giovani. E poi bisogna utilizzare tutti i mezzi per accompagnare il giovane.
In parte per rispondere a tale questione ho creato quest’anno, nella mia diocesi, delle case per studenti. In queste tre case, per ora, risiedono ventisette giovani, che sono responsabili di esse. Hanno tutti i giorni un tempo di preghiera e ricevono un insegnamento esplicitamente cristiano. Questo vuol dire che, parallelamente alla formazione professionale che ricevono nelle università, acquisiscono una formazione cristiana. Alcuni di loro si fanno delle domande di tipo vocazionale. Lì trovano l’ambiente e i direttori spirituali di cui hanno bisogno. Di questi ventisette, quattro mi hanno detto che stanno pensando di farsi sacerdoti o religiosi. Queste prime tre case accolgono solo ragazzi, ma ho lanciato - anche se spetterà al mio successore - la creazione di case per ragazze.
Ticanino86- Messaggi : 18
Data di iscrizione : 13.05.08
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