Due chiacchere
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Messaggio Da Admin Dom Giu 08, 2008 10:49 pm

Gli uomini diventano uomini tra gli uomini, confrontandosi, scontrandosi...

...camminando, lavorando e sudando, assieme. La pelle non mente, il cammino rivela uno sguardo curioso e sorpreso, forse sospeso nella ricerca di mondi, di uomini che lottano per la pace e la dignità. Questi ultimi tre anni ho avuto la fortuna di camminare e ora che ho appreso la bellezza del cammino voglio continuare a camminare per imparare a camminare. Le cose si fanno facendole con mani e con parole, camminando. Tre visi, tre comunità, tre momenti come tentativo faticoso di [sin]tesi di una ricerca di giustizia.
Salvador
Il viaggio ha inizio nel luglio duemilatre. Arrivo in una comunità, che per esplicita richiesta degli abitanti chiameremo solo G, tra le montagne del Chiapas, compiendo i miei obblighi e il mio dovere di cittadino italiano obiettore di coscienza alla chiamata alle armi da parte del nostro ministero della difesa. Nella comunità G passo i miei primi giorni in Chiapas, una quindicina all’incirca. L’arrivo dall’avanzato (da avanzi) occidente provoca un click istantaneo. Qui non c’è acqua né luce: si raccoglie l’acqua piovana o si scende dalla montagna per caricare secchi d’acqua dal fiume; la sera, dopo la lenta discesa del sole ci si riunisce attorno al fuoco per un caffè, poi con una candela per raggiungere quattro tavole di legno o il pavimento su cui dormire qualche ora. All’alba la luce e gli animali fanno da piacevole sveglia. Quella stessa notte avevo scritto:
«nome di voci modulato da visi che ti incontrano, occhi che cercano pelle che non mente pelle contiene a stento emozioni, pulsazioni scorrono lente e decise, si mescolano tra le braccia che stringono suono di rugiada dalle voci che non riescono a dire esteban suoni suavi tra colori decisi terre rosse fuoco, verde che acceca».
Da subito mi sento in una grande casa composta da trentatre famiglie arrivate su queste terre tre anni fa, spostatesi da un’altra comunità per problemi di terre. Prima sono arrivate tre famiglie e hanno iniziato a farsi largo tra la selva, hanno costruito una casa comunitaria dove vivere e hanno incominciato a preparare i campi per la semina del mais e dei fagioli; poi, poco a poco, le altre famiglie li hanno raggiunti e con il lavoro collettivo hanno costruito le case di tutti. Molti giovani, almeno il 70-75% sono emigrati negli Usa per cercare lavoro, attraversando il deserto ed evitando i proiettili degli spazzini norteamericani. Il mais non basta, il caffè non regala guadagni che permettano di vivere. Non c’è scuola, i padri la sera insegnano ai figli. Non c’è ospedale, ci si affida al sapere tradizionale, alle erbe della montagna. I pomeriggi ci riuniamo sotto l’ombra di un grande albero a parlare; la gente mi racconta storie e vite, aneddoti, problemi ed esigenze. Vicino al grande albero una casa di assi di legno. La prima casa delle prime famiglie ora è lo spazio per le assemblee, per la scuola, per le cerimonie religiose. La gente mi dice che vuole costruire uno spazio multiuso, con blocchi di cemento, uno spazio che identifichi la comunità, bello e accogliente. Ci guardiamo attorno: per arrivare fin qui si deve camminare quaranta minuti sulle montagne, dopo tre ore e mezza di bus dalla città più vicina, e i soldi per i materiali? Ci guardiamo intorno di nuovo e troviamo la risposta, la terra rossa che ci avvolge e sulla quale stiamo seduti. Da qui l’idea di costruire blocchi di terra seccati al sole, li chiamano adobe, e di chiudere con un tetto con la stessa terra, ma cotta. La terra è perfettamente argillosa, e per impermeabilizzare basta il liquido della pianta della gomma e la linfa di un’altra pianta. Le fondamenta saranno fatte con le pietre della montagna qui dietro. Non si fanno disegni, si sceglie dove sarà la costruzione, si piantano dei pali e si fissa quali possano essere l’esposizione e le dimensioni migliori. Il lavoro collettivo di uomini, donne e bambini sta permettendo a queste idee di fiorire, lentamente; l’intreccio di mani e di saperi, della solidarietà popolare e del sacrificio permette a ciascun uomo e a ciascuna donna di cementare principi di pace e di giustizia, vivi e presenti nella terra.
Samuel
I giorni successivi mi sposto in una comunità vicina, Nueva Tenejapa. Arrivandoci dopo un’ora di cammino mi chiedo perché si chiami Nueva, se ne esiste una Vecchia e subito vorrei saperne la storia. Sono accolto da grandi sorrisi, bambini curiosi, porte e braccia aperte mi fanno da subito uno della comunità, composta da nove capifamiglia. È giorno e gli uomini non ci sono: lavorano nei campi dalle sei del mattino alle quattro del pomeriggio per poter guadagnare l’equivalente di tre dollari scarsi al giorno con i quali mantenere una famiglia con nove figli. Ci riuniamo in una stanza adibita a chiesa e sala per discutere. Si inizia con una orazione in tzeltal, la lingua indigena che riescono a mantenere e a insegnare ai figli oltre allo spagnolo. Mi presento e su loro richiesta riferisco alcune informazioni sulla guerra in Iraq, sulla situazione italiana ed europea e alcuni dati sui Trattati di Libero Commercio tra le Americhe. Samuel traduce in tzeltal per i più anziani che non capiscono lo spagnolo. Si fa buio e fuori inizia a piovere. Sotto un tetto di lamiera, aiutati da alcune candele finalmente mi parlano della loro storia. Nel 1994 tra le comunità del Chiapas si aggiravano voci disparate su possibili cambiamenti politici, stravolgimenti nelle comunità, violenze, eserciti e morti. Alcuni uomini della loro comunità originaria, Maravilla Tenejapa, decidono di andare a cercare informazioni presso il governo locale. Samuel, Alonso e altre famiglie non si muovono dalle loro case, non hanno contatti con alcun gruppo militare, paramilitare, zapatista o di altri colori, continuano la vita di tutti i giorni, nei campi. Quando rientrano i compagni portano con loro gruppi militari del governo che occupano parti della comunità senza rispetto per le tradizioni culturali e religiose delle famiglie e destabilizzando con violenze quotidiane la vita comunitaria. Alcuni amici comunicano in segreto a Samuel che alcune famiglie sono accusate di attività sovversiva e di appartenere all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e che se rimangono rischiano l’incarcerazione, la tortura e la morte. La stessa notte, verso l’una, i genitori prendono i bambini e aiutano gli anziani, lasciano le case, le terre, i propri morti e le proprie vite. Abbandonano tutto quello che hanno. Armati solo dei vestiti che indossano si rifugiano tra le montagne e lì passano diversi mesi, ricevendo continue notizie sulla loro situazione di ricercati. Decidono quindi di scappare più lontano, di comprare, indebitandosi, un terreno e di [ri]iniziare a vivere. La loro situazione si definisce di desplazados, di coloro che sono obbligati a lasciare la propria comunità perdendo tutto quello che hanno, dai vestiti, alle case alle coltivazioni. Esistono tre tipi di desplazados: i primi collegati a una logica relazionata ai grandi progetti transnazionali di sfruttamento delle risorse ambientali chiapaneche; il secondo gruppo appartiene al tentativo da parte del governo di recuperare i municipi e i territori dichiaratisi autonomi con la rivolta dell’EZNL; il terzo gruppo è dovuto allo schema paramilitare che impone un subsistema politico regionale che ottiene i propri guadagni economici e politici in funzione del controllo dei territori. La comunità di Nueva Tenejapa ha cinque anni di vita, Samuel, Alonso e le loro famiglie fanno parte di un gruppo di diecimila persone che chiedono giustizia al governo: fanno incontri mensili per rivendicare le proprie terre, i propri diritti, giustizia e fine delle persecuzioni. Nonostante tutto il governo ribadisce in continuazione che il problema dei desplazados non esiste. Samuel mi regala ancora un sorriso: a loro importa soprattutto l’armonia che sono riusciti a creare nella loro comunità, con la loro terra. Vogliono garantire istruzione ai loro figli e ringraziano Dio che nessuno sia morto a causa di queste assurde e infondate accuse. Nel raccontarmi la loro storia si percepisce sulla pelle dolore e sofferenza ma nelle profondità degli occhi forte è la serenità e la voglia di vivere in armonia e pace. Intanto smette la pioggia, lentamente ritorniamo verso le assi per la notte.
Lavorare lentamente. Un lento rientro
I tempi son variabili che variano, le combinazioni, parecchie; il tempo non si può perdere, non c’è tempo da perdere perché non si ha possesso del tempo, almeno noi. La terra ha i suoi tempi, il nostro corpo pure, il sangue detta tempi. La terra ha tempi precisi dettati da variazioni del tempo atmosferico, noi variamo in base alla terra che ci ha fatto nascere, forse. Fare le cose con le mani, pensarle poco a poco e farle sentendone il peso. Prima tagliare l’erba, poi rimuovere la terra per scavare solchi da riempire con pietre. Il peso delle pietre sulla schiena scandisce il cammino e il respiro dalla cava alla costruzione. La terra rossa si regala all’occasione per farne blocchi. Il tempo delle pioggie, della semina e del raccolto detta il tempo del fare, il sole accompagna germogli di spazi. Il calore secca i mattoni e concreta le idee. Il liquido amniotico ci avvolge per nove mesi prima di vedere luce. Attesa e lavoro, lavoro di mani sapienti. Lavorare lentamente, sentire il fare e apprezzare il farlo. Da queste lezioni del camminare si sono placate le mie incertezze; nel cammino tra queste terre si erano incrinati i principi che mi avevano spinto all’obiezione di coscienza. Di fronte a tali ingiustizie, violenze, soprusi mi chiedevo in continuazione se io in tali condizioni non avessi potuto imbracciare un fucile per difendere i miei figli e la mia terra, i miei diritti. La risposta m’è arrivata dritta in faccia ogni giorno, limpida come l’alba che spazzava le nubi, senza grida né proclami, senza teorie né libri: terra, libertà, giustizia, dignità e pace si conquistano ogni giorno, in silenzio, con la forza delle parole e del lavoro. Le tracce ci sono, magari nascoste sotto l’erba, basta seguirle con pazienza. Settembre 2006: il viaggio dopotutto continua, i piedi son macchina del pensiero e l’importante è camminare.

Stefano Lucini
Obiettore per il progetto "Noi Cittadini del Mondo" di Caritas Ambrosiana


tratto da:
VO. CI.
Servizio Civile Volontario
Una scelta di pace
Edizioni EGA

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